Devi aggiungere un widget, una riga o un layout precostruito per poter vedere qualcosa qui. 🙂

È come con le canzoni estive, quei motivetti semplici che però ti entrano in testa e alla fine, anche se li detesti, ti ritrovi a cantarli. La Casa di Carta funziona più o meno così. Qualcosa ti spinge a guardarla e ne rimani prigioniero. Il fenomeno è clamoroso perché oltre ad aver colpito globalmente milioni di spettatori, persiste anche davanti all’estrema banalità di tutte le trame narrate. 

Certo bella a La Casa di Carta non si può dire, con quel guazzabuglio sentimentale da soap opera sudamericana messo dentro una trama principale da gangster story anglosassone, in versione “rapina del secolo”, come un biscottone di telenovela inzuppato nella ciotola sempre calda dell’action movie. Interessante però, non si può negare che lo sia. In primis per la personalità dei protagonisti. Ognuno di loro a suo modo è un escluso dalla società. Sono tutti individui isolati e perdenti che invece, riuniti e coordinati da un capo visionario, si riscattano mettendo a segno un colpo storico. Poi per vendetta e difesa aggressiva non si capisce perché ne organizzano un altro, ma lasciamo perdere. 

Ma la parte più riuscita della serie è senz’altro il come lo fanno, ovvero il piano. Non un assalto frontale e disperato alla tutto per tutto. Neanche una rapina con intrusione rocambolesca e nascosta. Invece un’invasione dichiarata e scaltra nel centro nevralgico del sistema per impadronirsi di ciò che è a loro negato, sotto gli occhi di tutti pur nell’anonimato. Il loro è infatti un blitz perfettamente organizzato in cui (quasi) ognuno svolge il suo ruolo e (quasi) tutto funziona come un orologio. Insomma un furto colossale compiuto con estrema destrezza che mette i rifiuti sociali di cui sopra con le mani sul cuore pulsante del sistema che li esclude. È da notare che a parte il “Bella Ciao” cantato dalla banda, nei dialoghi i riferimenti politici sono praticamente zero. Il ribellismo veste i panni del surreale con il volto di Dalì sulle maschere dei banditi, che in fondo hanno solo voglia di dire che anche loro esistono e possono farsi beffe di chi governa il mondo.

Già, e quindi? Ecco il giochino perverso che ti porta dentro la serie: come ce la fanno a farcela, d’accordo, ma anche: cosa fanno dopo aver dato scacco matto alla polizia ed essersi impossessati di un tesoro fantastico? 

La domanda, ahinoi, è tuttora in sospeso. Il forte dubbio è che sia proprio questo interrogativo a incatenarti a La Casa di Carta nella speranza di avere prima o poi una risposta. Il creatore Alex Pina e gli sceneggiatori alla terza stagione hanno dribblato, bissando lo schema delle prime due. Ci hanno detto che in fondo ciò che vogliono questi qui è stare insieme, partecipare a qualcosa di grande senza arrendersi a un sistema che li vuole perdenti. Ci hanno portato a spasso rendendoci ostaggi dei loro rinvii, della carta straccia su cui hanno buttato lì di gesta memorabili e piccoli amori e sentimenti vari. Ma adesso? Vedremo soddisfatta la nostra curiosità? C’è un racconto o un suggerimento di futuro dei nostri eroi? Personalmente temo e spero di no. Non ce li vedo, Alex Pina e Netflix, sforzarsi così tanto per rischiare di deludere il pubblico. Del resto, in ogni caso sarebbe un fallimento agli occhi degli spettatori, come gran parte dei finali delle serie più avvincenti. Dopo tante emozioni, il finale dovrebbe garantirne una ancor più intensa, cosa che capita di rado. Ma non importa, chissene frega dell’ultimo atto. La Casa di Carta vive lungo il percorso, non nella meta. Non è mica un romanzo o un film, che trovano nell’esito la quadratura di un progetto narrativo ed espressivo. È una serie e come tale il suLA o obiettivo è raccontare, emozionare, suggestionare nel qui ed ora. Comunque vada a finire è stato un successo. Lo dicono i numeri che la pongono al primo posto nel mondo tra le serie non in lingua inglese e ciò basta. Bella non lo sarà mai, riuscita lo è in ogni caso.

Sergio Gamberale

Vai alla barra degli strumenti