Pronto, ci siamo? Ammesso che sì, siamo qui, siamo ora? No che non siamo qui e certo che non siamo ora. Quel ruminante sbracato che ti è parso di percepire al tuo fianco non è che la proiezione del suo immaginario sé, impegnato a rincorrere o a farsi raggiungere da emozioni di chissà quale luogo e quale tempo. Un paio di click di smartphone e il viaggio inizia. Destinazione casuale, esito piatto. È chiaro come il sole: il mondo digitalizzato che il nostro noi ha creato mal ci si addice. Volevamo allargare gli stretti confini di un’esperienza non all’altezza dei nostri sogni-trappola. Siamo finiti in un labirinto di Bianconigli e Stregatti astratti, ammaliati al punto da non saperne più uscire. Condannati a un apparire analogico, lineari per amaro destino, non ci resta che la fuga volontaria dal presente tramite visione di mondi altri, tecnologici e digitali o per volontaria ipnosi seriale audiovisiva. Siamo i naufraghi di Lost, i cowboy di Westworld, i programmatori di Bandersnatch, piume alla mercè di un demonio capriccioso che si presenta alla tua porta cogliendoti in mutande e non ti molla più.
Che fine hanno fatto i mitomani, si (e ci) chiede con tenero nichilismo Giancarlo Dotto nel suo Il dio che non c’è (GOG edizioni, 2021). Ebbene eccoli lì, coi culi molli, a dissolversi via schermo nel non-luogo-non-tempo dei loro irrinunciabili apparati, videotrasportati in un secondo davanti allo specchio di una presunta starlette danzante o nel Mare della Tranquillità il 20 Luglio del 1969 o chissà dove e chissà quando, incatenati a un’idea effimera di bello. Non c’è nulla da immaginare in quell’immaginario prêt-a-porter. Nessuna idea di fabula o invenzione in quella realtà aumentata. Nessun afflato per il mito in quel prodotto da cultura social. Al contrario. Lo vedi quel ciccione abbracciato a un sostegno del bus 64 all’ora di pranzo, cellulare tra le dita? Lui sta invece in cuor suo col 10 sulle spalle nell’area di rigore dello stadio Azteca la notte del 17 Giugno del 1970. Stop e rewind. E vale per tutto e per tutti: Maradona, Che Guevara, Jimi Hendrix e compagnia bella. Ancora e ancora on line, consumando quegli attimi eterni fino a cancellarli, forse per sempre. Mitomicida, il ciccione del 64 come tutti noi, vittime consenzienti di miti altrui e carnefici della loro sostanza. Costantemente a gettare in massa granelli di oblio tecnologico sulla materia divina della leggenda. In questo modo, a colpi di player, l’eterno possibile lentamente ricopre e trasforma in rovine l’epica dell’attimo, del gesto unico e irripetibile, dell’eroismo o dell’antieroismo. Polvere su polvere, perché tutto ciò che oggi diffonde parole e immagini è destinato a non lasciare traccia. E la Domus Aurea della mitologia sarà presto completamente sepolta e dimenticata. Lei e chi la inventò.
Ne è in arrivo una nuova? Possibile ma poco probabile. Che miti vuoi che tiri su un’umanità così, Marvel a parte?
I miti sono ponti gettati su orizzonti irraggiungibili, tra Terra e cielo, tra vita e morte. Osano proiettarti oltre. Li vedi cavalcare a passo lento scomparendo dietro l’ultima frontiera. Poi muoiono presto e vivono per sempre. Sono creature di un altro mondo, generate da un’altra specie di sognatori, rispetto alla nostra che è costretta a subirlo, il sogno. A noi tocca la sorte dei boia, dei giustizieri per lento interramento di gesti e visioni di bellezza còlti al volo e consegnati a un futuro che scompare. Ai posteri l’ardua pala.
Sergio Gamberale