Gli antichi Greci, che coi miti giocavano a palletta, si inventarono la φθόνος των θεων, l’invidia degli dèi. Per loro c’erano eroi, ovvero uomini, le cui virtù o fortune erano tali da suscitare il sentimento della gelosia perfino sull’Olimpo. Certo, per meritare questo tipo di attenzione dalle divinità, dovevi farla grossa. Dimostrarti superbo e tracotante, inseguire il canto delle sirene, peccare di ὕβϱις. E la punizione divina che comportava era soprattutto un monito a chi osasse andare al di là del consentito. Ma il concetto rimpallava consolatorio perché insomma, altro che triste e vana, la vita di un uomo poteva essere perfino degna di invidia da parte degli dèi! Visione che scarta di netto ogni idea pessimistica o nichilistica dell’esistenza umana in un bel dribbling esistenziale, per piazzare all’angolo un pensiero tutto sommato confortante.
Certo, rispecchiarsi nell’invidia di figure immaginarie può essere considerata roba da narcisisti patologici, oggi. Ma ancora lo si fa. Forse chi ha tramato per la caduta degli dèi ha pensato che con loro sarebbero scomparsi anche il misticismo e i miti mentre invece non è affatto così. Sta di fatto che qualcosa del genere accade, riveduto e adattato ai tempi, nell’odierna mitologia Marvel e in particolare in Wandavision. Da sempre i supereroi della fucina di Stan Lee portano i loro poteri con sofferenza. Da Spiderman in giù, tutti vivono la loro condizione in modo più o meno problematico, anteponendo spesso il senso di responsabilità alle proprie esigenze. Ognuno a suo modo ha occasione di guardare con implicita invidia la vita grigia di una persona qualsiasi. Il che suggerisce ai lettori di fumetti e agli spettatori tv qualcosa di consolatorio, similmente a quanto giungeva agli ateniesi del quinto secolo a.C. seduti in teatro davanti all’Orestea di Eschilo.
Wandavision in questo senso è la chiusura perfetta. Nella struttura da metaserie che Jac Schaeffer ha genialmente ideato, mette in scena il sogno umano dei supereroi Wanda e Visione attraverso la loro volontaria immersione nel nostro immaginario. Wanda Maximoff, desiderando sfuggire al suo destino eroico ma doloroso, grazie ai poteri crea una bolla spazio-temporale e costruisce un Truman Show in cui tutti, ipnotizzati, vivono come fossero in una sit-com. L’aspirazione alla normalità veste dunque i panni della commedia umana così come gli umani l’hanno rappresentata in TV nei decenni. Si rovescia così il rapporto di emulazione che lega gli spettatori agli eroi. I primi vorrebbero somigliare ai secondi, ma questi esprimono il desiderio di vivere (ed essere raccontati) come uomini.
Pur con tutti i limiti e le difficoltà del caso essere umani non è poi così male, dunque, se le fragilità e gli orizzonti stretti in cui ci muoviamo sono oggetto di desiderio da parte di creature a noi superiori. Coloro che amiamo e in cui sogniamo di identificarci, sognano a loro volta di vivere la futile, a volte ridicola situation comedy della nostra esistenza. Tralasciando gli sviluppi narrativi della serie, è questa rovesciata acrobatica a far segnare a Wandavision un bel gol nella porta del pessimismo. In bello stile, all’incrocio tra angoscia e depressione.
Sergio Gamberale