LA TRAPPOLA DEGLI “AUTORI”. Limiti e rischi della via italiana alle serie tv

I produttori italiani sembrano aver imbroccato la via della “politique des authors” per conquistarsi uno spazio nel mercato mondiale delle serie tv. Ma è la politica più giusta?

Apparentemente We Are Who We Are e The Third Day non hanno nulla in comune. Generi diversi, sapori opposti. Di qua un teen movie autoriale, di là un horror onirico visionario. Non fossero uscite quasi contemporaneamente il confronto sarebbe impossibile. Invece eccole là, le due serie, a guardarsi l’una con l’altra sugli schermi di Sky, procedendo parallelamente. Si può passare da un piano sequenza molto antonioniano che racconta il complesso rapporto tra Fraser e Caitlin nella quarta puntata della serie di Guadagnino a un primo piano in grandangolo sulla follia nel volto di Jude Law in The Third Day ep2. E così, di scena in scena e di puntata in puntata, fino a cogliere il nesso che distingue nettamente le due serie.

Entrambe puntano sul fattore stile per connotare il racconto e arricchirlo di senso, ma ognuna interpreta il compito a modo suo. Mentre WAWWA ci porta dietro lo sguardo del regista, che attraverso inquadrature, movimenti di macchina, montaggio, scelte musicali eccetera esprime il proprio sentimento e pensiero sui fatti narrati, TTD illustra in modo espressionista lo stato d’animo del personaggio trasportandoci nella sua mente. Nel primo caso si è scelto di personalizzare il racconto in una forma elegante e sensibile alla materia narrata; nel secondo si è voluto invece mettere tutta l’espressività del linguaggio cinematografico dentro la storia. Atteggiamenti opposti, modi e maniere assai distanti, in entrambi i casi felicemente applicati. Si può essere più portati per l’una o per l’altra, ma bisogna riconoscere che si tratta di due lavori ben realizzati.

Detto questo, c’è da fare un distinguo, che riguarda non solo le scelte estetiche ma anche quelle produttive, a medio e lungo raggio. Senza nulla togliere a We Are Who We Are, si deve notare che la serie di Guadagnino è un unicum irreplicabile. Ciò che la distingue è il brand dell’autore, il suo particolare modo di raccontare. Una serie così la si pensa, produce e distribuisce in quanto legata al nome e alla sensibilità narrativa dell’autore. È lo schema che ha funzionato già con Ferrante (L’Amica Geniale), Saviano (Gomorra, Zero Zero Zero) Ammanniti (Il Miracolo, Anna) e Sorrentino (The Young Pope, The New Pope) autori delle serie tv italiane più diffuse nel mondo.

Il successo, ovviamente, fa sì che la formula si ripeta. Visto che funziona, i produttori italiani hanno iniziato a proporre sempre più operazioni di questo tipo, basate innanzitutto sul peso della firma. Si direbbe insomma che l’Italia abbia imbroccato la via della politique des authors proponendosi al mondo con lavori fortemente connotati in senso autoriale. È questa la politica più giusta se si vuole dare alla fiction italiana un carattere maggiormente internazionale? Secondo me no.

Il prodotto di questo genere si distingue per il taglio personale di un regista-autore su una storia. L’operazione funziona finché l’opera mostra effettivamente uno sguardo originale e intrigante sui fatti narrati e finché il pubblico mostra interesse per la visione del mondo di un certo autore. È insomma un prodotto legato a fattori quanto mai volatili e soggettivi come l’estro personale o la curiosità dello spettatore. Puntare su questi elementi per farsi strada in un mercato che domanda quantità e qualità di spettacolo a ritmi furibondi è un limite e un rischio. Il pubblico più appassionato è alla continua ricerca di novità e le ampie platee sono invase da produzioni altamente spettacolari.

Per alimentare un’industria vorace e globale come quella delle serie tv ci vuole qualcosa di meno episodico. Se si vuole conquistare stabilmente una parte del ricco mercato della fiction seriale conviene far capire al pubblico di tutto il mondo che dall’Italia possono arrivare storie fresche, credibili, emozionanti e ben realizzate. E possono arrivarne tante, non solo quelle che nascono nella mente di un qualche genio. Per fare ciò, occorrono sguardo lungo e programmazione; saper progettare serie in grado di catturare l’attenzione con la forza della narrazione, l’efficacia della messa in scena, la capacità espressiva. Bisogna alzare le antenne e sintonizzarsi su temi universali. Si devono formare squadre di scrittori artisti e tecnici intorno a progetti adatti a più palati. Bisognerebbe insomma fare come hanno fatto quelli di The Third Day, mettere da parte il nome-brand e impiegare creatività ed energie nel tradurre il racconto nel linguaggio più efficace. Perché al contrario di We Are Who We Are, di The Third Day puoi farne decine. Trovi una bella idea originale di due sconosciuti, ci credi, ci investi risorse ed energie et voilà, in streaming. Senza dimenticare che di là, dall’altra parte dello schermo, c’è una moltitudine molto varia che chiede di appassionarsi a storie e personaggi, molto più che di identificarsi con un autore.

Sergio Gamberale

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