Come era prevedibile, il ritiro da parte di HBO di Via col Vento (Gone with The Wind, 1939) dal proprio listino in streaming (ritiro temporaneo, in vista dell’aggiunta di un extra che ne spieghi il contesto storico) ha fatto felici solo i fessi. L’iniziativa di compensazione storica assunta dal network americano nei confronti del film razzista e sudista di Victor Fleming, oltre a riempire le bocche dei libertari contrari a ogni censura, ha reso facile il giochino del ribaltamento di causa ed effetto che piace tanto a chi è avvezzo a ignorare l’esistenza della luna concentrando lo sguardo sul dito (in questo caso medio, alzato e nero) di chi la indica,
È infatti bastata questa notizia, insieme alla rimozione della statua dello schiavista Colston da parte dei manifestanti di #BlackLivesMatter a Bristol (UK), con l’aggiunta di dibattiti astrusi su Cristoforo Colombo o qualche pasticcino nero, per spostare immediatamente l’attenzione dalle sacrosante istanze riesplose nella comunità afroamericana dopo il brutale e ingiustificato omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis (USA), indirizzandola sulle vere o presunte assurdità dei loro fini.
Così, nel giro di pochi giorni si è passati dall’indignazione verso gli abusi razzisti e omicidi nei confronti dei neri allo sberleffo della campagna antirazzista identificata con l’oscuramento di un film o l’abbattimento di qualche simbolo del potere bianco. Come se questo fosse il vero tema, dimenticando la grave e serissima questione razziale che è al centro della vicenda. Un’operazione in cui tra l’altro è facile sospettare il coinvolgimento di qualche manona professionale più volte vista al lavoro sulla propaganda via social, specie in anni di elezioni presidenziali americane come questo. Una manona a cui è stato servito un assist perfetto.
Ma l’iniziativa della Home Box Office non risulta grottesca e fuori luogo solo per la banalizzazione che ha causato nella percezione del problema razziale. Lo è anche e soprattutto perché punta il bersaglio sbagliato. Che senso può avere rimettere le mani su un vecchio film se non al massimo lavarsi la coscienza o attribuirsi un’aria liberale di fronte all’opinione pubblica? Questa è solo ipocrisia. Se ai piani alti dello showbizz americano si vuole prendere di petto il problema del razzismo nella cultura popolare da lui prodotta, devono mettere in discussione Hollywood non per i film che HA realizzato, ma per quelli che NON HA mai neanche pensato di mettere su.
È agghiacciante pensare, ad esempio, che il pubblico abbia dovuto attendere fino a tre anni fa per scoprire, grazie allo splendido documentario di Ava DuVernay intitolato XIIIth (XIII Emendamento, di Netflix ma visibile liberamente su YouTube in versione originale con sottotitoli in italiano) che la storia dell’attuale violenta persecuzione ai danni degli afroamericani iniziò il giorno dopo l’abolizione della schiavitù e per via di un semplice comma inserito nel testo della norma che ha fatto del Presidente Lincoln un eroe della libertà. Poche parole che stanno alla lunga e ininterrotta persecuzione degli afroamericani come l’invasione della Polonia alla Seconda Guerra Mondiale.
Lo sapevate voi? Io neanche. Eppure da lì fiorirono milioni di storie di incarcerazioni pretestuose, uccisioni barbare, verdetti a senso unico, condanne senza delitti e senza prove ai lavori forzati, fughe disperate, odissee in cerca di salvezza. Uomini e donne in lotta per la sopravvivenza in un mondo a loro ostile. Catene di nuovo avvinte a caviglie teoricamente libere. Cuori spezzati. Una miniera di trame infinita. Ma neanche, incredibilmente, un film che abbia cavalcato questa sterminata prateria. Qualche accenno qua e là di sfuggita, tra le Radici di Kunta Kinte, ma poco o nulla più. Strano, no?
Il tutto mentre la stessa Hollywood contribuiva alla conoscenza delle masse raccontando di tragedie storiche analoghe come la Shoa o lo sterminio dei Nativi Americani in film di cui tutti hanno ancora viva memoria. Un buco clamoroso che non può non suscitare domande sulle sue reali cause. Razzismo? Difficile negarlo. Imbarazzo? Forse per qualcuno. Di certo la prova che il dramma degli afroamericani è ancora molto caldo e decisamente aperto nella realtà sociale degli Stati Uniti di oggi.
Perciò no, cari boss bianchi dell’industria culturale più potente del mondo, non è correggendo qualche virgola di Via col Vento o magari attaccando il vecchio capolavoro razzista Nascita di una Nazione (Griffith, 1915) che risolverete la faccenda, ma rompendo finalmente il silenzio sulla più grande vergogna che non avete mai avuto il coraggio di raccontarci.
Sergio Gamberale