Come Hemingway in Addio alle armi (1929) Lior Raz e Avi Issacharoff raccontano in Fauda una guerra che hanno conosciuto di persona. Entrambi ex membri delle Forze di Difesa Israeliane, hanno sviluppato questa serie sulla base delle loro esperienze personali sul fronte della lotta all’organizzazione militare palestinese Hamas e altre forze armate ostili a Israele. Questo fattore, rinforzato dallo stile cinema-verità in cui è girata, i set allestiti in vere zone di operazione, la credibilità di tutti i personaggi e gli interpreti, conferisce a Fauda un aspetto fortemente realistico.
Ogni stagione un’indagine, anzi una caccia all’uomo. Con lunghe sequenze o piani sequenza spesso in soggettiva, entriamo nel vivo di operazioni di sicurezza della massima pericolosità. E con altrettanta facilità penetriamo, insieme all’agente sotto copertura Doron infiltrato tra le linee nemiche, nella realtà caotica di questo singolare campo di battaglia. Fauda infatti, in arabo, significa Caos e il riferimento, oltre alla complicata rete di rapporti di potere all’interno di Hamas, è anche alla particolare situazione emotiva in cui si viene a trovare il protagonista.
Costretto a vivere per lungo tempo sotto falsa identità tra gli arabi, lui che è un ebreo cresciuto in mezzo a loro e dunque perfettamente mimetizzato, si trova a stringere rapporti, frequentare persone, penetrare nelle famiglie di possibili guerriglieri palestinesi. Ne diventa amico, poi li tradisce. Sono quelli infatti sentimenti da cancellare a colpi di mitra, quando arriva l’ordine dall’alto o la maschera cade.
La serie ci porta a vivere questa significativa e paradossale situazione accanto al protagonista, interpretato dallo stesso Lior Raz. Fortemente determinato a colpire i terroristi, Doron tradisce tutti gli innocenti che lo hanno portato all’obiettivo. Questo, più dei colpi ricevuti e inferti (ben al di là di qualsiasi codice) gli conferisce quell’aria eroica ma sofferente, segnata dalla consuetudine con il dolore da distacco.
Le emozioni, in Fauda, non arrivano solo dalle coinvolgenti scene d’azione. Con altrettanto cinema verità la camera del regista Assaf Bernstein va a raccontare spicchi di vite e personaggi a tutto tondo sia di qua che di là dal fronte, in ebraico e in arabo. Se è vero che i vertici dei guerriglieri palestinesi vengono raccontati in chiave gomorriana, con sguardo prevalentemente distante, si avverte e si apprezza nel vissuto dei protagonisti infiltrati, il profumo della realtà. In questo quadro Doron, vero guerriero impavido sul campo, marito tradito in casa e padre sconsolato e ferito, incrocia lo sguardo di una dottoressa e si scioglie. Colpo di fulmine perfettamente ricambiato. È una bellissima storia d’amore, calda e struggente, quella tra Doron e Shirin (interpretata dalla franco-libanese Laëtitia Eïdo), tra le più vibranti non solo in questa serie.
Insomma un po’ action movie con i piedi saldamente ancorati al terreno, un po’ racconto in presa diretta di sentimenti vietati o controversi, Fauda si compie completamente nella attraente e coinvolgente composizione dei tempi. Come una melodia, le immagini ci trasportano felicemente su e giù, a seguire eventi trascinanti nell’animo ben chiaro di questo o quel protagonista. La godibilissima composizione deve molto alle ottime e sempre puntuali musiche di Gilad Benamram (stesso autore guarda caso della colonna sonora di Caos Theory, commedia drammatica sentimentale di Marcos Siega, 2007).
Non sappiamo quanto ancora andrà avanti. Ma per quanto visto in queste prime tre stagioni, per il costante lavoro in profondità sul contesto e sui personaggi, per il piacere assoluto di moltissime delle sue scene sia di combattimento che drammatiche o d’amore, Fauda si pone al top delle più grandi serie internazionali.
Sergio Gamberale
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