MINDHUNTER

“SERIAL KILLER, IO TI CONOSCO” – Recensione “Mindhunter 2”

La madre di tutte le storie di serial killer si conferma un’opera profonda, elegante, unica nel genere. Regia, scene e interpretazioni di valore assoluto.

Già due anni fa, con la prima stagione, Mindhunter aveva lasciato il segno. La serie prodotta da David Fincher e Charlize Theron era apparsa subito come un unicum nel genere crime, per la narrazione fredda e lo stile caldo con cui ci portava alla scoperta del mondo inquietante e allucinato dei serial killer. Ora la seconda stagione (su Netflix dal 16 Agosto) conferma e rafforza quell’impressione. La serie che John Penhall ha tratto dal libro autobiografico dei due detective dell’FBI che alla fine degli anni ’70 iniziarono a studiare il fenomeno degli assassini seriali non è uguale a nessun’altra del genere. Ed è un capolavoro.

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Holden e Bill, i due agenti, riprendono il loro lavoro di indagine intervistando in carcere assassini riconosciuti colpevoli di delitti in serie. Lo scopo è riuscire ad ottenere un profilo psicologico che aiuti a individuare altri criminali dello stesso stampo. Nel frattempo un’oscuro male indebolisce Holden, mentre Bill è costretto ad affrontare un fattaccio che coinvolge il suo figlio adottivo. Tempo da perdere non ce n’è, visto che da Atlanta arriva la notizia della scomparsa e uccisione di numerosi ragazzini. Tutti di colore, in una città in cui è attivo il gruppo razzista violento del KKK. Wendy, la psicologa del gruppo, supporta i due colleghi come può, mentre cerca una sua collocazione sentimentale. Così si va avanti. Le parole di criminali come Il figlio di Sam, Wayne Williams e il celebre Charles Manson, forniscono qualche preziosa indicazione. Ma il problema nasce quando il profilo psicologico del fantomatico assassino di Atlanta non coincide né con le prime evidenze dei casi indagati, né con le convinzioni delle famiglie delle vittime, né con le necessità politiche degli amministratori della città. L’opinione pubblica poi, preme per una soluzione diversa da quella ipotizzata dagli investigatori. L’ombra del razzismo si allunga fino a oscurare il lavoro scientifico. Ma proprio nel finale nuovi indizi mettono tutti d’accordo.

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Ma non è tanto la storia a fare di Mindhunter 2 una serie da non perdere. È piuttosto l’impianto cinematografico del racconto, in cui la tensione del dramma viene fuori attraverso dialoghi incisivi e ficcanti, interpretazioni perfette, scene quasi vuote riempite da inquadrature espressive, un montaggio morbido. Si apprezza la scelta di non voler colpire lo spettatore allo stomaco con i ritmi e gli acuti dell’azione a tutti i costi, con il sangue o la spettacolarizzazione della violenza. Al contrario, in Mindhunter 2 si viaggia straniati a bassi regimi nell’inferno della depravazione mentale in un quadro storico e sociologico molto accuratamente ricostruito.

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Davvero un ottimo lavoro in cui è facile riconoscere la mano elegante del regista di Seven e Gone Girl e il talento di attori come Jonathan Groff, Holt McCallany (i protagonisti) e Damon Harriman che interpreta un Charles Manson memorabile. Sarebbe ingiusto citare soltanto loro, in un’opera collettiva di così riuscito equilibrio. Perciò diciamo “bravi tutti” e speriamo di ritrovarli presto in una terza stagione.

Per vedere Mindhunter 2 in streaming su Netflix clicca QUI.

Sergio Gamberale

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