IL FALLIMENTO DI STRANGER THINGS 3

L’horror non spaventa, il mistero si fa ridicolo e l’avventura di formazione scolora in un pallido teen drama. Così la terza stagione di una delle serie più amate degli ultimi anni affonda in un bicchiere d’acqua.

È una legge di natura. Non ci si può fare niente. I cuccioli di razza umana a un certo punto del loro sviluppo, grosso modo tra i dodici e i quattordici anni, si trasformano da adorabili creature dal viso angelico in odiose testine di cazzo con facce inespressive e piene di brufoli. Così, dalla sera alla mattina, il pargolo che fino a ieri avresti coperto di baci mentre ti guardava con quegli occhietti pieni di poetico stupore, adesso lo prenderesti a schiaffoni ogni volta che ne incroci il volto assente e disgustato non si sa perché. Dunque, se per caso aveste in mente di realizzare una serie con protagonisti dei fanciulli, vi do una dritta: attrezzatevi con dei freezer in cui ibernare, tra una stagione e l’altra, i marmocchi che li interpretano. Oppure, che ne so, adattate il racconto prevedendo che la magica empatia suscitata dai protagonisti a un certo punto vada a finire nel cesso. In caso contrario, preparatevi a un fallimento simile a quello di Stranger Things 3.

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Non che questo sia l’unico errore commesso dai fratelli Matt e Ross Duffer, per carità. Diciamo però che se, per gratitudine verso gli autori di quella divertente cavalcata di paura negli anni ’80 che è stata Strager Things nelle prime due stagioni, si potrebbe anche chiudere un occhio su un paio di linee narrative ridicole nella terza, ritrovare quei pargoli trasformati in mostriciattoli né carne né pesce irrita al punto da mandare a puttane ogni sforzo di benevolenza. D’altronde, perché mai dovrei identificarmi con quegli imberbi rompipalle per bermi la sonora cazzata di un battaglione di Russi comunisti e cattivi che lavorano in gran segreto in un enorme laboratorio scavato sotto la cittadina di Hawkins? O la svolta in stile L’Invasione degli Ultracorpi (1956)? O il cliché delle scene horror ambientate in un Luna Park tra divertimenti e fuochi d’artificio? Non si capisce.

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Come se non bastasse, lo sviluppo dei personaggi-fanciulli e dei rapporti tra loro, uno dei punti di forza delle prime due stagioni della serie, incappa qui nella trappola del teen drama più scontato. I vari Gaten Matarazzo, Millie Bobby Brown e compagnia bella, vengono catapultati da una tragica lotta contro il Demogorgone a un bacio da love story adolescenziale in una paracula rincorsa ad ogni pubblico che finisce per annullare gli opposti effetti ricercati. Se fino alla seconda stagione stavi lì a tremare insieme a quei ragazzini di fronte al terrore dell’inconoscibile o del soprannaturale, adesso ti ritrovi tutt’al più a temere che esplodano in un rutto. E la serie affonda in un bicchiere d’acqua. Non meno deludenti risultano le vicende che vedono protagonisti i fratelli e gli amici un po’ più grandi: Billy (Dacre Montgomery) il ribelle posseduto, Nancy (Natalia Dyer) la ragazza in lotta contro i (soliti) pregiudizi e Steve (Joe Keery) il perdente che non si arrende, non regalano grosse sorprese. Alla fin fine, Strager Things 3 non ti spaventa e non ti avvince. Ti strania, quello sì, grazie anche all’impatto di Wynona Ryder che con la sua espressione costantemente stralunata traduce in umorismo e ironia sia le scene drammatiche che quelle comiche. Il tutto mentre il bravo David Harbour fatica sette camicie per dare una qualche credibilità alla sua svolta eroica.

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Magari è una stagione di passaggio. Chissà. Certo è bene che gli sceneggiatori tengano conto, nel prevedibile seguito, che il fascino quasi poetico del gruppo di ragazzini imberbi che vanno alla scoperta della vita in sella alle loro bici, ovvero ciò che ha fatto la fortuna di questa serie è andato via insieme all’infanzia dei loro protagonisti. Questi ormai vanno verso i diciotto, chi bene chi male. E la grande metafora che univa l’horror alla fantascienza per raccontarne lo stupore davanti ai misteri del mondo non può funzionare più.

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Sergio Gamberale

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