Lui ama e vende libri. Lei li compra e li legge con passione. L’incontro tra gli scaffali. Due sguardi che si trovano. Un rapido scambio di battute, di quelle che lasciano il segno. Sospiri. Potrebbe essere l’inizio di una storia d’amore. Infatti lo è. Perché Joe (Penn Badgley) si innamora di Beck (Elizabeth Lail). Lei invece tituba, presa com’è da un altro. Amore contrastato, quindi? Sì, ma c’è un gigantesco “ma”: il nostro Joe non è un eroe da romanzetto rosa, né tantomeno un animo da Romanticismo Sturm und Drang. È invece un modernissimo stalker in preda a una vera ossessione. Quindi non è con dichiarazioni poetiche o struggimenti al tramonto che “You” va avanti. Ma con appostamenti sotto le finestre, cellulari clonati, intrusioni forzate e tutto il campionario tecnologico, social e criminale di chi oggi voglia condizionare la vita altrui. Tutta roba che con l’amore c’entra molto poco.

La vicenda, sceneggiata da Greg Berlanti e Sera Gamble dall’omonimo romanzo di Caroline Kepnes, fa presto a sconfinare nel thriller psicologico. Nella sua morbosa e martellante ricerca del cuore di Beck, Joe non si fa nessuno scrupolo. Indaga nell’intimo della ragazza per inquadrare il bersaglio, ne mette a fuoco debolezze e sogni, abbatte gli ostacoli tra loro. Insomma, fa di tutto per diventare agli occhi di Beck ciò che Beck desidera e di cui ha bisogno. Si spinge fino a interferire nella vita di questa sfuggente aspirante scrittrice per pilotarne il successo. E ce la fa! Ma il germe della psicosi maniacale rimane sempre ben radicato in Joe e il suo desiderio di possesso prende nuove e più spericolate forme. Capiremo presto, seguendo le sue asfissianti gesta, che per per quanto Beck gli si conceda, Joe non sentirà mai soddisfatto il suo desiderio malato. Che infatti ci accompagnerà presto in una nuova stagione.

Il quadro psicologico dei personaggi è chiaro. La tensione rimane sempre alta e gli eventi sono ricchi di sorprese e colpi di scena. Attori e regia sono di buon livello. Tecnicamente un lavoro fatto bene. Tuttavia “You” non diventa mai una di quelle serie di cui ti appassioni. Troppo fredda, nonostante il tema; troppo costruita a tavolino; soprattutto troppo verbosa. Non c’era bisogno di fare un uso così debordante della voce fuori campo del protagonista che spiega, reagisce, interpreta in ogni scena. Noiosamente. Si poteva anche solo mostrare, a volte persino solo suggerire. Avremmo perso qualche sfumatura psicologica? Forse, ma avremmo avuto un contatto più emozionale con il protagonista e ci saremmo seguiti la sua pazza avventura non abbarbicati sulla poltrona di uno psichiatra ma più comodamente adagiati su un alone di mistero.
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Sergio Gamberale
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