I tipi come Coliandro, un tempo, li vedevi nei teatri all’aperto. Quattro panche di palco, uno straccio per sipario, due miseri elementi di scena. E lui lì, a improvvisare battute su un canovaccio insieme a quelli della sua risma: Pulcinella, Arlecchino, Pantalone. Tutti con una maschera e un carattere sempre uguali, immancabilmente buffi, a nutrire l’esibizionismo di artisti e guitti per il sollazzo di un pubblico accalcato in una piazza. Commedia dell’arte, la chiamavano. Nobile tradizione.

Oggi invece, che guitti e artisti si esibiscono al calduccio dei teatri di posa e gli spettatori sghignazzano davanti agli schermi, comodamente spaparanzati sulle loro poltrone, uno come Coliandro te lo ritrovi in TV. A conquistarti con la sua incazzata leggerezza, mentre continua a infilarsi in faccende più grandi di lui. Il fatto che agisca in uno scenario poliziesco è del tutto incidentale, come il titolo di ispettore. Se in mano ha un distintivo e una pistola è solo perché a crearlo è stato un giallista, Carlo Lucarelli. Ma ormai, a circa trent’anni dal suo debutto sulle pagine di un romanzo e dopo dodici di carriera televisiva, Coliandro potrebbe tranquillamente maneggiare uno stetoscopio o una spada laser senza perdere la sua anima. Lo prendi così com’è, lo porti fuori da un commissariato e lo sbatti in un ospedale o in un’astronave e funziona lo stesso. Potenza di una maschera che ha ormai conquistato il suo pubblico.

Sboccato, cialtrone e in fondo mezzo scemo, Coliandro agisce in un canovaccio sempre uguale. Per caso o per sfiga viene a trovarsi nel bel mezzo di un’inchiesta al di sopra delle sue scarse capacità. Senza neanche capirlo si mette in casini ad alto rischio, mentre una donna molto bella cattura il suo cuore allegro. Il fato interviene a suo favore portandolo alla soluzione del caso, ma i superiori si incazzano con lui per qualche grave sbadataggine e la bella di turno puntualmente lo pianta in asso. Questo eroe comico che si muove in bilico tra il caricaturale e la farsa, attraversando puntata dopo puntata diversi stili e declinazioni del genere giallo, ha subito ammaliato il pubblico italiano. Quando il primo “L’Ispettore Coliandro” uscì, in sordina, nell’estate del 2006, quelli che in Rai titubavano temendo reazioni avverse alle parolacce e ai pregiudizi del protagonista, si convinsero davanti ai dati d’ascolto. Quello sfigato antieroe che però ce la fa, agli Italiani piaceva eccome. E continua a piacere, visto che il primo episodio della settima stagione ha sfiorato i due milioni e mezzo di spettatori nel Prime time di Raidue. Come mai?

Bisogna dare atto al bravissimo Giampaolo Morelli che lo definisce con precisione e ai Manetti Bros che lo dirigono. Ma la chiave del successo è tutta nel personaggio-maschera. Il segreto è sempre lo stesso. Da Pulcinella a Totò, da Arlecchino a Fantozzi, ciò che rende vincente una maschera è la sua doppia capacità di rappresentare in chiave comica il pubblico, facendogli credere che si tratti di qualcun’altro. Lo spettatore quindi, come di fronte a uno specchio deformante, ride di se stesso pensando però che si stia prendendo per il culo il suo vicino di scrivania o di casa. Coliandro è infatti sotto sotto una rappresentazione di un certo carattere italiano. Il simpatico sfacciato allergico alle regole, l’inconsapevole incapace che si ritiene vittima dell’incomprensione altrui, il fancazzista cronico con l’alibi della burocrazia, l’incolto che spara sentenze. Frustrato dalla mediocrità cui è condannato, sfodera pistola e distintivo per sentirsi quel qualcuno che non è. Più del senso di giustizia, a muoverlo è la necessità di sopravvivere al casino in cui si è messo da solo. Ma nessuna emergenza vitale è più forte della tentazione di tuffarsi fra le tette della bella di turno. Irriducibile incarnazione del luogo comune, fa di tutto per sentirsi diverso dagli altri.

Ma è come tanti, forse tutti. Quasi una foto vivente dell’italiano medio. Quella che fa le corna dietro al becco di turno e disegna baffi posticci col pennarello. Continuerà a funzionare, Coliandro, solo a patto che non commetta l’errore più grande: quello di abbassare la maschera, mostrare il volto misero che c’è sotto, rendersi consapevole di ciò che è. Perché là sotto c’è del tragico, come dietro ogni maschera. L’arte dei grandi interpreti della Commedia all’italiana lo insegna: nascondere il dramma dietro una battuta è fondamentale. Altrimenti il pubblico volterebbe le spalle. Perciò caro Coliandro, su la maschera! E facce ride!
Sergio Gamberale
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