Quando chiedono al boss Miguel Angel Felix Gallardo perché voglia mettersi nel pericoloso business della cocaina, la sua risposta è quella che darebbe qualsiasi imprenditore d’assalto: “Perché è un’opportunità. Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. E quando la moglie Mika chiede all’agente Enrique “Kiki” Camarena perché voglia svolgere quell’ultima, rischiosissima operazione antidroga, prima di mettersi al sicuro a San Diego, lui risponde che quella è la “sua” vita, la “sua” battaglia e vuole condurla fino alla fine. La storia di “Narcos: Messico” è la storia di uomini così. Di fuoco e di palle. Uomini in bilico sull’orlo di un abisso. Uomini contro.

Nomi, cognomi e storia non sono frutto dell’immaginazione. Sono le cronache, non Carlo Bernard e Doug Miro, i creatori della serie, a raccontarci che Felix Gallardo (interpretato da Diego Luna), ex poliziotto colluso con i trafficanti d’erba della regione di Sinaloa, fu colui che per primo riuscì a unire in un cartello tutti i gruppi criminali del Messico, trasformando un pugno di banditelli da strapazzo in una delle più ricche e potenti mafie del mondo;

e che Kiki Camarena (Michael Peña) fu l’agente della DEA americana che si infiltrò nell’organizzazione, infliggendogli un duro colpo. La Storia, quella con la S maiuscola, ci dice poi che gli eventi di cui furono protagonisti portarono all’inizio di una guerra che ancora oggi va avanti, dopo circa cinquecentomila morti lasciati nella polvere del paese centroamericano. Loro, Bernard e Miro, hanno scelto felicemente di raccontare le due storie in parallelo, modificando qualche dettaglio qua e là, a scopo drammaturgico e soprattutto lavorando con scultorea precisione su dialoghi e personaggi. Il risultato è strabiliante. “Narcos: Messico” è una serie stupenda.

L’impianto è quasi da thriller. Da una parte seguiamo Gallardo che, non contento di aver creato la più grande coltivazione della migliore marijuana del mondo e una rete che gli permette di trasportarla dritta dritta verso il ricco mercato nordamericano, decide di sfruttare il canale per recapitare negli Stati Uniti quella polvere bianca che i colombiani faticano a far arrivare ai gringos sempre più pazzi di lei. E questo tanto per moltiplicare ulteriormente i già ingenti profitti del suo cartello. Dall’altra, accompagniamo l’oriundo agente Camarena nella faticosa scoperta di un mondo ancora sconosciuto, quello della nuova organizzazione criminale, reso ancor più misterioso dalla fitta rete di coperture ad ogni livello frutto di un’ingente attività di corruzione. Due strade destinate a scontrarsi. Due percorsi non certo privi di insidie.

Se il primo dovrà vincere le diffidenze di capi clan spesso in guerra tra loro e convincere i colombiani della bontà della sua offerta; il secondo, animato dalla voglia di colpire i narcos, scoprirà amaramente quanto possano essere pericolosi e in quale inferno di doppiogiochisti e traditori sia incappato. Ma questo è solo l’impianto generale. L’anima, il cuore, il sangue di “Narcos: Messico” è nell’ambientazione, nei personaggi comprimari, nei dialoghi. Il paesino da cui parte tutto, arido e perso; la città di Guadalajara, un colorito agglomerato di vite fuori da ogni regola, il deserto sperduto in cui sgorga l’acqua e diventa verde di marijuana; le spiagge da sogno, rifugio dei boss. E le catapecchie cadenti, le corti polverose, le ville di lusso, gli appartamenti modesti, le suites.

Luoghi per anime esagerate, come quella di Rafael Caro Quintero detto Rafa (Tenoch Huerta), l’amico fraterno di Gallardo, quello che inventa la miglior marijuana del mondo, vive di eccessi da rockstar, combatte a colpi di mitra, impazzisce d’amore, si rifugia nella coca. O viceversa, anime pure. Come quella di Mika (Alyssa Diaz), la dolce moglie di Kiki che segue il marito, sforna figli, sostiene il peso della paura, affronta dignitosamente il male.

Il contrario esatto di Isabella Bautista (Tereza Ruiz), la femminona furba che sfrutta i suoi agganci e la sua sensualità per ghermire il capo, sedersi al tavolo dei boss e incassare la percentuale. La lista di figure che emergono dal contesto è lunga. Un posto di assoluto rilievo, per peso drammaturgico e non, spetta a Ernesto “Don Neto” Fonseca Carrillo, interpretato da un folgorante Joaquin Cosio. Boss pigro, ciccione, pietoso e spietato, sa elargire condanne esemplari e incassare sconfitte con la medesima filosofia. Può perdonare l’assassino di suo figlio ma non perdona se stesso che lo lascia andare. La sua uscita di scena è tra i momenti più memorabili della serie. Seconda solo, nel cuore degli appassionati di “Narcos”, all’apparizione di Pablo Escobar e dei boss di Cali nell’episodio 5.

Si potrebbe dire ancora molto, di “Narcos: Messico”. Delle trame parallele fatte di giochi ai tavoli del potere o di mogli gelose dei loro fedifraghi boss. Si potrebbe parlare delle musiche, una compilation di pop messicano dal sapore neomelodico ora gioioso ora struggente, che danno alla serie il gusto di un chilli ignorante consumato in una bettola di Guadalajara. Ma si continuerebbe a non dire quello che semplicemente va detto in poche parole: “Narcos: Messico” è un’emozione prepotente e violenta. Uno spettacolo di fuego y pasion che sta agli amanti del genere come un piatto di candida polvere al più incallito dei cocainomani. E, dall’altra parte, come un suolo di arida polvere all’ammazzato di turno che vi esala il suo ultimo respiro. Non puoi fare altro che buttartici o cascarci dentro, anima e corpo. E viverla, respirarla, fino alla fine della decima puntata, quando scopri, con sorpresa e piacere, che la storia non è finita. Anzi la guerra è appena all’inizio. E c’è ancora una montagna di polvere da vendere o bruciare, o inalare per l’ultima volta, nelle prossime stagioni.
Sergio Gamberale
Il trailer italiano di “Narcos: Messico” è QUI.
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