Da una parte la più classica delle situazioni “da paura”: una grande casa abbandonata in luogo isolato, una famiglia con bambini che vi si stabilisce, la manifestazione di spaventose presenze all’interno di essa. Dall’altro lo stimolo intellettuale di una costruzione narrativa seducente e impegnativa, un gioco di continui rimandi tra passato e presente, un labirinto in cui tentare di trovare la via d’uscita. Di qua il veleno dell’irrazionale paura; di là l’antidoto della rassicurante logica. Cinquanta e cinquanta, senza che l’una prevalga sull’altra. Questa è “Hill House”.

Tratta da un vecchio romanzo di Shirley Jackson, “L’Incubo di Hill House” (1959), la serie racconta le terrificanti esperienze paranormali vissute da cinque fratelli durante la loro breve permanenza in una casa infestata dai fantasmi. Traumi che segneranno le loro vite, costringendoli ad allontanarsi l’uno dall’altra e che riemergeranno con deflagrante prepotenza nel momento in cui, molti anni dopo, riunendosi in un’occasione luttuosa, dovranno incontrarsi di nuovo. Su questo plot, il creatore e regista Mike Flanagan ha montato una sofisticatissima tela basata su continui rimandi tra presente e passato, con la camera a seguire in soggettiva le linee psicologiche ed emotive dei personaggi. Le loro risposte individuali al grande mistero della paura; il conflitto che esse generano tra di loro. In un crescendo drammatico che va ben oltre i confini del genere.

Spaventosa e affascinante, “Hill House” è girata con notevole maestria ed interpretata con il giusto carico di pathos da splendidi attori, Carla Gugino (la madre) su tutti.

Ma se la serie si impone come una bella novità è soprattutto perché non indugia ma indaga su quello che per altre storie del genere è il fine ultimo, ovvero la paura. E allo stesso tempo, come si diceva all’inizio, non cede alla facile tentazione di sciogliere il mistero. Insomma, una serie di altissima qualità che spaventa come “Shining” e spiazza come “Twin Peaks”, pur senza scimmiottare né Kubrick né Lynch. Da non perdere la puntata numero 6, un vero capolavoro di regia, tutta giocata in un lungo piano sequenza da incanto.

Tutto perfetto? No, qualche nota negativa c’è. Il finale soprattutto, troppo frettoloso e forse un po’ banale. Ma non basta a cancellare l’ottima impressione (in tuti i sensi) che “Hill House” è capace di suscitare sul pubblico. Da vedere.
Sergio Gamberale

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