Fermo restando che giudicare una serie, soprattutto se antologica, da due sole puntate su dieci è da considerarsi esercizio puramente accademico, un paio di commenti scappano via dalla tastiera, appena visti (su Amazon, solo in originale senza sottotitoli fino al 2019) i primi due episodi di “The Romanoffs”.

Partendo dalla coda, ovvero dalla firma di Matthew Weiner in calce al progetto, la prima cosa da dire è che il nome del celebratissimo creatore della ormai mitica “Mad Men” rischia di stare un po’ sopra alla serie. Non perché vediamo anche qui i protagonisti fumare e bere allegramente, ma perché in questo caso, nel bene e nel male, la fama dell’autore è tale da influenzare gli sguardi sull’opera. Il rischio è che la tentazione di andare a individuare e interpretare un vero o presunto percorso artistico ed espressivo “d’autore” mandi alle ortiche il sano gusto di intrattenersi con divertimento davanti a una storia. Ma tant’è, siamo gente da cedere alle tentazioni, accidenti!

E allora eccola là: il sospetto, fondato su due prove su dieci, è che “The Romanoffs” sia una rappresentazione dei rapporti sentimentali visti nella loro intrinseca precarietà. Legami vissuti come centrali e definitivi ma fragili e provvisori, solidi come sassolini al cospetto della montagna rappresentata dai legami di sangue, le discendenze, le famiglie. Cosa potrà mai essere un amore per quanto passionale e trascinante, di fronte al potente richiamo del sangue, anche se annacquato e disperso in un oceano? Ecco qui lo “struggle” dei Romanoffs. Ma occhio alla possibile lettura contraria: i deboli rapporti sentimentali sono anche capaci di costruire negli anni forti legami di sangue. Un codice inverso che racconta l’ambiguità dei rapporti umani. Puoi vedere i trailers QUI.

Vogliamo dirlo? Diciamolo: il tema dei rapporti intimi, già raccontato con sensibilità in “Mad Men” (vedi QUI) nel quadro storico della trasformazione dell’America degli anni ’60, torna in “The Romanoffs” con una visione che va oltre la storia, in una prospettiva quasi antropologica. Parolona impegnativa, in netto contrasto con il tono delle puntate viste, giocate sui registri della commedia. E proprio per questo da rimarcare in neretto. Sempre che quanto visto fin qui venga confermato da ciò che sarà mostrato nelle prossime puntate della serie.

Nel primo episodio, intitolato “The Violet Hour”, Aaron Eckhart è un giuggiolone squattrinato che arriva a Parigi insieme all’odiosa fidanzata (Louise Bourgoin) per mettere le mani sulla lussuosa casa in cui vive la sua anziana zia Anouska Romanoff (Marthe Keller). Ma la vecchia, data per moribonda, si rivela assai vitale e scontrosa tanto con l’ereditiero quanto con la governante che lui gli propina, una giovane di famiglia araba (Inès Melab). Mentre il primo si allontana per compiacere la viziatissima fidanzata in una vacanza al mare, la seconda, di animo decisamente più puro, resiste alle velenose e continue frecciate della nobildonna finendo per conquistarla. Così gli equilibri affettivi vacillano, trascinando con sé le disposizioni testamentarie. Con esiti davvero imprevedibili, in una commedia che ricorda un film di Woody Allen senza Woody Allen.

In “The Royal We” invece, Corey Stoll e Kerry Bishé interpretano una coppia in crisi. Tra lunghi silenzi, indifferenza reciproca e qualche seduta di terapia, i due Romanoff portano stancamente avanti il loro spento matrimonio. La scossa arriva quando lui, impegnato come giurato popolare in un processo per omicidio, subisce il richiamo animale di una sensualissima Janet Montgomery. Così, ritarda la decisione sul verdetto quel tanto che basta a far partire la moglie per la crociera dei Romanoff dove erano attesi in coppia. E lì, sola soletta, lei incontra un bel tipo intraprendente (Noah Wile). Mentre lui cerca di avvicinare la seducente collega giurata. Separati e liberi, i due coniugi seguiranno i loro istinti fin dove le circostanze e le rispettive coscienze consentiranno loro.

Due godibilissimi film basati su intrecci classici e dinamiche da commedia rosa o nera. Nessuna ricercatezza o forzatura, solo una trama semplice con i giusti toni, tempi corretti e buone interpretazioni. Se non facessero parte di una serie con quei nomi importanti nel titolo e nella firma, li si potrebbe archiviare alla voce “buon film” e tanti saluti. Ma questa è una serie “d’autore”, accidenti! Dunque c’è da aspettarsi che queste prime due storie si rivelino parte di un affresco più grande. Sarà così? Scopriremo con le prossime otto puntate altri dettagli del progetto generale? Personalmente scommetto sul sì. Staremo a vedere.
Sergio Gamberale
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