“Ispirato ai personaggi di Psycho del maestro Alfred Hitchcock”. Se non fosse per la frettolosa scritta che fugge via ad ogni puntata, “Bates Motel” galleggerebbe in stato di abbandono tra l’indifferenza e lo sberleffo. Vorrei vedere, in assenza del potente richiamo, chi degnerebbe di minima attenzione questa storiaccia edipica infarcita di sangue, traumi, psicosi e sesso buttati lì a caso intorno a un rapporto madre-figlio di fronte a cui Freud si farebbe una gran risata. Ineluttabile attrazione di un titolo cult.

Non che l’idea di sfruttare il nome del film di Hitchcock in chiave seriale sia nuova. Già negli anni ’80 ci si provò, con modestissimi risultati, con “Psycho1”, “Psycho2”, “Psycho3” e con un film Tv intitolato proprio “Bates Motel”, che nelle intenzioni doveva essere l’episodio pilota di una serie. Non se ne fece nulla. Invece nel 1998 fu Gus Van Sant a realizzarne un remake “shot for shot”, ovvero replicando inquadratura per inquadratura il film originale. Buona ultima, nel 2013, arrivò sugli schermi Rai (ora invece su Netflix) questa serie che, dopo essere stata annunciata come un prequel del film incentrato sul rapporto tra Norman e sua madre, è stata poi ridefinita come reboot. Del resto, pur mantenendo i nomi del protagonista, epoca e luoghi sono stati cambiati, passando dalla California degli anni ’40 all’Oregon dei nostri giorni.

Gli autori dunque (Carlton Cuse, Kerry Ehrin e Anthony Cipriano), pur promettendo con quel richiamo esplicito al film, che racconteranno gli eventi che porteranno Norman a sviluppare una psicosi omicida, hanno voluto recidere il cordone ombelicale che legava il loro lavoro all’archetipo cinematografico. Al contrario di quello che accade, in “Bates Motel”, al nostro Norman. Lui nel cordone ombelicale ci sta avvolto di brutto. Il cuore della storia è infatti chiaramente lì, nel rapporto irrisolto tra un giovane sensibile e introverso con una madre intraprendente e troppo amorevole. Uno scolastico complesso di Edipo, che emerge nella sua assoluta banalità puntata dopo puntata, a dispetto della pletora di sottotrame noir che vi si intrecciano.

La traccia vede madre Norma e figlio Norman (Vera Farmiga e Freddie Highmore) reduci dalla misteriosa morte del padre di famiglia, trasferirsi a White Pine Bay, Oregon, dove acquistano ad un’asta giudiziaria un motel. Il legame tra i due si tinge subito di rosso sangue, perché già il primo giorno si trovano a far fuori l’ex proprietario del motel, un tipaccio che per rappresaglia tenta di violentare Norma. Rosso che vira immediatamente al buio mistero, quando i due, anziché denunciare i fatti, decidono incomprensibilmente di occultare il cadavere dell’aggressore. La necessità di sfuggire all’accusa di omicidio rende il rapporto tra madre e figlio più esclusivo e profondo. Cosa che emerge con maggiore evidenza all’arrivo di Dylan (Max Theriot), l’altro figlio che Norma ama assai meno di Norman, un tipo assai meno docile e sottomesso del fratellastro.

Mentre questa terremotata famiglia cerca faticosamente i suoi equilibri, scopriamo che il paese in cui hanno scelto di andare a vivere è tutt’altro che un posto tranquillo. E il povero Norman si trova a vivere la sua adolescenza, con i suoi connessi sentimentali e sessuali, tra bande criminali, sensi di colpa verso la madre e la comparsa di inquietanti blackout, momenti di assenza in cui è cosciente ma agisce come un automa. Proprio in questi momenti, la personalità di Norman devia pericolosamente verso le tenebre della psicosi ossessiva e omicida. Interessante? Forse. Scontato? Sicuro.

Ma il problema principale è che il tema edipico è immerso in un tessuto di sottotrame che mischiano senza ritegno i generi più diversi: dal college movie più banale alla gangster story di quarta fila, passando per la commedia romantica senza sentimenti. Storielle buttate lì, con personaggi privi di spessore. L’insipidità del tutto è mirabilmente sintetizzata nel volto Farmiga, un primo piano da comica surreale buttato in mezzo a un marasma dark.
Sergio Gamberale
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