MOLTO CALCARE, ZERO CINEMA. “La Profezia dell’Armadillo” rimane su carta. Recensione e clip

No, non ce l’hanno fatta. Non sono riusciti a far decollare il mondo poetico e stralunato di Zero Calcare dal tratto personale della sua matita per farlo volare nella dimensione autonomamente espressiva del cinema. Ci hanno provato, ma “La Profezia dell’Armadillo” in versione film non va molto al di là del fumetto filmato e lascia alla graphic novel originale tutto il gusto istrionico e visionario che l’ha fatta amare a decine di migliaia di lettori. Eppure nel film gli elementi ci sono tutti: il ventisettenne spiantato e problematico che deve elaborare un lutto mentre cerca di sbarcare il lunario, l’amico fuori di testa, la madre fuori dal mondo (Laura Morante), Rebibbia, il Mammut, la misteriosa Camille e soprattutto lui, l’Armadillo (Valerio Aprea), allegoria della coscienza critica del protagonista. Qui, la scelta di tradurre questo personaggio fantastico in una maschera vivente (anziché ad esempio in un cartoon) introduce un elemento surreale dal sapore straniante. Eccolo qui spiegare il significato del titolo:

Se comunque nel film c’è tutto il “calcare”, ovvero l’esistenzialismo pieno di incrostazioni di vita così felicemente raccontato da Michele Rech in arte Zero nei suoi fumetti, quello che manca, a “La Profezia dell’Armadillo” è il respiro narrativo. Un peccato di eccesso di fedeltà alla graphic novel. L’aver messo in fila alcuni degli spunti migliori del libro ha fatto uscire fuori un film che vive di momenti, di strappi anche felici, a volte anche divertenti, senza però un flusso continuo che faccia vivere il racconto di vita autonoma. Una struttura assente che se nella graphic novel, narrata autobiograficamente in prima persona dal personaggio-autore, lascia spazio alla fantasia iperrealista del disegnatore; nel film, che adotta un punto di vista esterno ed oggettivo, lascia un vuoto. Al contrario, la parte migliore del film è proprio quello che nel fumetto non c’è, ovvero la descrizione per immagini dell’universo periferico, sia in senso topografico che culturale, in cui Zero Calcare e il Secco (Simone Liberati e Pietro Castellitto) sono immersi. La Rebibbia dell’anima. Ecco un esempio:

Molto dolce, bisogna dire, è il racconto della storia di un amore non dichiarato tra Zero e Camille, tinteggiato attraverso una serie di flashback dal sapore timidamente romantico come il suo protagonista. Sarebbe il cuore della storia ma purtroppo ne rimane spesso ai margini, per lasciare spazio a scene a volte scollegate o pretestuose, come quella in cui compare Adriano Panatta nei panni di se stesso, in uno sketch di stile morettiano che è sì una chicca, ma poco c’entra con il resto. Eccolo:

Oltre a Panatta, nel film troviamo in altrettanti cameo Claudia Pandolfi, Kasia Smutniak e Vincent Candela (l’ex calciatore). Non sapremo mai come sarebbe stato “La Profezia dell’Armadillo” se Valerio Mastandrea, oltre a firmarne la sceneggiatura con lo stesso Zero Calcare, Oscar Glioti e Johnny Palomba (quello delle surreali “recinzioni” di film), ne avesse preso in carico la regia. L’esordiente (nel lungometraggio) Emanuele Scaringi che ha preso il suo posto, ha puntato molto sulle inquadrature strette, concedendo forse troppo poco al quadro d’insieme nelle scene d’interni. Uno sguardo più largo, un racconto visivo più accurato del rapporto tra i personaggi e l’ambiente avrebbero reso questo film un tantino più cinematografico. 

Sergio Gamberale

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