Un volto. Semplicemente un volto. Candido e perduto. Ma anche uno schermo pulsante, capace di raccogliere e proiettare emozioni.
Stupore, smarrimento, paura, rabbia, sottomissione, schiavitù, speranza, ribellione, morte, vita, odio, amore. Ci dice tutto, quel volto. Ce lo racconta in tutte le sfumature, quale atroce dramma viva l’ancella protagonista di questa storia. E ce lo fa vivere. Sentire. Oltre le parole. Ben al di là della finzione fantascientifica in cui è immerso.
Perché al netto del romanzo di Margaret Atwood e del film che ne fu tratto nel 1990 per la regia di Volker Schlondörf (sceneggiato da un certo Harold Pinter), “The Handmaid’s Tale” di Bruce Miller è essenzialmente una splendida composizione plastica sui primi piani. E in primo piano c’è un’attrice di grande talento: Elisabeth Moss. La si era già notata con piacere in “Mad Men”, ma stavolta splende di una luce tutta sua. Tiene i piani ravvicinati come fosse la Giovanna d’Arco di Dreyer ed è veramente straordinaria, per come riesce a reggere quasi tutte le dieci puntate di questa prima stagione sugli sguardi e le espressioni minime, rimanendo sempre credibile e portandoci fin dentro il cuore e l’anima della sua Difred.
Un cuore di donna e di mamma, spezzato dalla perversa cattiveria di un potere spietato. Quello del violento regime teocratico che, nell’immaginazione della Atwood, ha risposto alla crisi demografica istaurando una dittatura sugli uteri. Lì, le poche donne fertili rimaste, come Difred, sono ridotte a sopravvivere come umili strumenti di riproduzione della elite al potere. Farsi ingravidare o morire. Questa l’alternativa.
Così, strappata a marito e figlia, precipitata in un regime in stile Isis, con rieducazioni forzate di massa ed esecuzioni pubbliche, la nostra Difred/Elisabeth Moss si trova a fare la schiava sessuale del Comandante Watford (Joseph Fiennes) cui non manca l’assenso esplicito e legalizzato della moglie Serena (Yvonne Strahovski). Con imprevisti e implicazioni che non riveliamo. E la presenza di un terzo incomodo: Nick (Max Minghella), tuttofare del comandante.
In tutto ciò, è la delicatissima sensibilità dell’attrice a comporre il quadro emotivo in cui rispecchiarsi. I suoi occhi dolci e svuotati, le sue labbra ora morbide ora serrate, le sue guance tenere e rigate di lacrime, sono il tema principale. La storia gira intorno. Quasi se ne potrebbe fare a meno. Se si estraessero i primi piani di Elisabeth Moss e li si montasse in sequenza, si riavrebbe indietro tutto ciò che fa di “The Handmaid’s Tale” un vibrante, profondo, disperato e vigoroso inno alla vita e alle donne. Senza sbavature, senza poetismi, senza retorica. Una prova d’attrice da urlo oltre che da Emmy Award (quello lo ha vinto). Una performance che la impone tra i nomi più importanti del panorama mondiale.
Sergio Gamberale
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