Sconvolgente. Gli abitanti di un medio quartiere residenziale americano non se ne fanno una ragione. Perché mai Hanna Baker (Katherine Langford) ha voluto farla finita? Aveva solo sedici anni. Era carina, dolce, apparentemente felice. Allora perché si è suicidata? Il più scosso è Clay Jensen (Dylan Minnette), l’amico più intimo della ragazza. Quello buono, sensibile, introverso. Quello segretamente innamorato di lei. Ma ciò che turba ancora di più Clay è il pacco che mani ignote gli consegnano a casa. Contiene i nastri su cui la stessa Hanna ha spiegato con la sua voce quali sono i “13” motivi del suo gesto. Audiocassette che la ragazza ha voluto spedire ai responsabili del suo gesto. Dunque anche lui c’entra qualcosa. Senza che ne sappia nulla.
Dylan Minnette e Katherine Langford in 13 REASONS WHY
Cosa c’è sotto, lo scopriamo piano piano seguendo insieme a Clay i racconti di Hanna. Quello che si può dire è che c’entrano il bullismo, la logica del branco, il farsi i fatti propri davanti a un coetaneo che soffre. Tutti temi sensibili, nell’epoca della condivisione sfrenata di ogni intimità, per i millennials che, ingenui e indifesi, animano un mondo di relazioni diffuse e instabili. In cui la reputazione, bene prezioso per ogni adolescente, è oggetto di minaccia costante. Una foto che gira inopportunamente su Whatsapp e la tua nomea è compromessa. Tutti vittime e carnefici in questo far west emotivo in cui vince chi spara la foto o il video più “forte”. Fino al momento in cui il più debole cade.
Ritratto generazionale, dunque? Racconto-denuncia sui rischi insiti nella social society? Monito contro l’indifferenza che affligge adolescenti messi brutalmente a contatto con ogni aspetto della realtà? Tutto questo, certo, è “13”. Ma anche un pochino di più. La serie è soprattutto una storia d’amore. Un primo amore, con tutte le insicurezze e le timidezze del caso. Un amore tenero e disperato, perché scoperto e vissuto pienamente dal protagonista quando ormai il suo oggetto è scomparso per sempre. È struggente e dolcissimo, Clay, mentre col cuore a pezzi avanza nel racconto di Hanna. E noi palpitiamo e soffriamo con lui, perché le emozioni che vediamo sullo schermo sono emozioni vere.
Il racconto di Jay Asher, da cui la Universal ha tratto la serie, ha un’architettura narrativa molto stringente e promette colpi di scena fino alla fine. Come in un giallo. In effetti, potrebbe sembrare essa stessa un gioco perverso. Una cosa come tessere una grande tela di ragno e liberarci dentro degli uccellini. Vederli fremere sempre di più tra di loro fino a che, ad uno ad uno, non rimangono con le ali invischiate. Ma il fatto che a guidarci nel racconto sia il più tormentato dei giovani protagonisti e che al suo fianco riviviamo momenti e sensazini suoi e della povera ragazza, permette alle intense e intime emozioni raccontate di svolazzare libere per un po’. Come in un romanzo di formazione. Amaro e delicato, ma soprattutto credibile e onesto.
Giornalista pentito e critico per natura, si è occupato per vent’anni dell’oggetto delle sue passioni e dei suoi studi giovanili: il cinema. Come inviato e critico ha assistito sgomento alla fine della settima arte. Asciugate le lacrime e trovato un secondo lavoro, ha iniziato a seguire le serie tv e la fiamma dentro di lui si è riaccesa.
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